– Ho convissuto nella casa di mia proprietà con il mio compagno. Ora la relazione è finita, ma lui non vuole andarsene. Anche la mediazione è fallita perché lui non si è presentato. Quale azione giudiziaria dovrà intraprendere il mio avvocato per mandarlo via di casa? –
Convivenza e famiglia di fatto: che valore hanno?
Già prima dell’entrata in vigore della recente legge sulle Unioni di fatto e la disciplina delle convivenze, la Suprema Corte aveva elaborato una ricorrente definizione di convivenza di fatto (altrimenti detta “more uxorio”), rilevando come “ove tale convivenza assuma i connotati di stabilità e continuità, e i conviventi elaborino un progetto e un modello di vita in comune” – simile a quello proprio della famiglia fondata sul matrimonio – la semplice convivenza “si trasforma in una vera e propria famiglia di fatto”. Famiglia che, ha sempre ricevuto tutela da legge: si pensi, solo per fare alcuni esempi, al diritto del convivente a subentrare all’assegnatario defunto della casa popolare, all’estensione al convivente degli ordini di protezione contro gli abusi familiari, alla possibilità di far ricadere la scelta dell’amministratore di sostegno sulla persona stabilmente convivente.
Al pari, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della norma in materia di locazione nella parte in cui non prevede, in caso di morte del conduttore, tra i soggetti che possono succedere nella titolarità del contratto di locazione, il convivente more uxorio e nella parte in cui non prevede la successione nel contratto di locazione, rispetto al conduttore che abbia cessato la convivenza, del già convivente quando vi siano figli.
Che diritti ha sulla casa il convivente non proprietario?
Ciò detto, il problema posto dalla lettrice non ha ricevuto uno specifico inquadramento giuridico con l’entrata in vigore della legge “Cirinna”. Se questa, infatti, ha disciplinato in modo espresso i diritti del convivente sulla casa di comune abitazione in caso di morte dell’altro convivente, essa nulla ha previsto, invece, per l’ipotesi di cessazione della convivenza, se pur lasciando alla coppia la piena libertà di assumersi con specifico contratto fra conviventi, anche in vista della separazione, reciproci impegni di natura patrimoniale (ulteriori per esempio a quelli contenuti in un eventuale e diverso contratto di convivenza).
Ciò significa che, nel caso di specie, occorre guardare alla disciplina già in vigore in materia.
Torna utile, a riguardo, richiamarsi ad una pronuncia piuttosto recente della Cassazione riferita al caso di un convivente more uxorio, il quale agiva in giudizio nei confronti della propria ex partner, asserendo di essere stato spogliato in modo fraudolento (a seguito di cambio delle serrature) dal compossesso dell’immobile (di proprietà esclusiva della compagna), adibito ad abitazione familiare in cui viveva con la stessa.
Pronuncia questa di particolare importanza in quanto puntualizza dei principi “base” in merito alla qualificazione giuridica del partner non proprietario. Questo può definirsi solo un detentore del bene per ragioni di ospitalità (o di servizio) oppure un detentore qualificato (cioè che detiene il bene nell’interesse proprio)? Si tratta di una differenza rilevante perché, solo in presenza di detenzione qualificata questi potrebbe promuovere, ove subisse uno spoglio, un’azione di reintegrazione nel possesso.
Orbene, a riguardo, la Corte nella pronuncia in esame rileva l’esistenza di due contrapposti orientamenti:
- Il primo propende per la tesi ( Cass. sent. n. 8047/2001 e 2555/74) della qualificazione del convivente more uxorio (non proprietario dell’immobile) come detentore per ragioni di ospitalità, affermando che “Il solo fatto della convivenza, anche se determinata da rapporti intimi, non pone di per sé in essere, nelle persone che convivono con chi possiede il bene, un potere sulla cosa che possa essere configurato come possesso autonomo sullo stesso bene o come una sorta di compromesso”;
- Il secondo (al quale aderisce la pronuncia in esame e che sembra essere quello attualmente prevalente) ritiene, al contrario, che al convivente che godeva con il partner proprietario dell’immobile, è attribuibile una posizione riconducibile alla detenzione autonoma (caratterizzata dalla stabilità della relazione familiare). Secondo tale giurisprudenza, la convivenza more uxorio determina, sulla casa di abitazione ove si svolge la vita in comune, un potere di fatto basato su un interesse proprio, ben distinto da quello derivante da mere ragioni di ospitalità; con logica conseguenza che il convivente estromesso sarà legittimato ad esperire l’azione di spoglio ( sent. n. 9786/2012).
La pronuncia in esame, collocandosi nell’ambito della dottrina e giurisprudenza (costituzionale e di legittimità) più recente, può probabilmente considerarsi maggioritaria; ciò, tuttavia, non fa venir meno la necessità che debba essere poi il singolo magistrato a valutare gli specifici casi sottoposti al suo esame, verificando, volta per volta, che la pregressa convivenza abbia avuto carattere stabile, consolidato ed effettivo.
Cosa fare per mandar via da casa il convivente?
In base a quanto detto, sarebbe senz’altro inopportuno che la lettrice procedesse ad allontanare in modo violento o clandestino il convivente (tramite cambio delle serrature della casa), in quanto questa legittimerebbe (secondo la tesi attualmente prevalente) un’azione di spoglio da parte del convivente estromesso volta alla reintegra nel possesso.
Ciò non toglie che, ove il rapporto di convivenza sia cessato, la lettrice abbia il pieno diritto di allontanare da casa l’ex compagno; a riguardo, è senz’altro condivisibile la tesi secondo cui, vada esperita un’azione di rilascio o di restituzione del bene immobile di proprietà dell’istante, tesa ad ottenere la riconsegna della casa da parte di chi, come il convivente, si trova nella materiale disponibilità del bene in assenza di un idoneo titolo legittimante.
Su cosa deve fondarsi la richiesta di rilascio?
La domanda di rilascio, tuttavia, non va fondata su un rapporto di comodato a tempo indeterminato, in quanto in un caso come questo la caratteristica del godimento del bene è che esso non è esclusivo, né incondizionato, bensì finalizzato alla convivenza insieme al proprietario, dovendo invece essere richiesto il rilascio sulla diversa causa (c.d. causa petendi) della cessazione della convivenza (Cosi, Trib. Bologna, 14.05. 2008).
Come si svolge la procedura per il rilascio?
Nell’ambito di detta azione di rilascio, sempre secondo la su citata sentenza (Cass. sent. n 7214/13) sarà necessario semplicemente provare al giudice la cessazione della convivenza caratterizzata dalla stabilità e dal modello di vita comune. A riguardo, ritengo che già l’attestazione dell’inutile esperimento del tentativo di mediazione possa rappresentare una valida prova di tale circostanza.
Inoltre, andrà riconosciuto al convivente il diritto di ottenere un congruo termine per trovare una diversa collocazione abitativa prima di essere allontanato dall’immobile.
La Corte ricorda che per tale azione troverà applicazione il rito speciale previsto in caso di immobili condotti in locazione o comodato (ex art. 447 bis cod. proc. civ.), nell’ambito della quale il convivente potrebbe ottenere il cosiddetto” termine di grazia” (solitamente di 90 giorni), come pure una proroga del rilascio che gli consenta di trovare un diverso alloggio. I principi di buona fede e correttezza impongono, infatti, al proprietario che intenda – una volta cessata la convivenza – recuperare la piena disponibilità della propria casa, di avvisare il convivente e concedergli il tempo materiale necessario per trovare un altro alloggio.
Fonte: Maria Elena Casarano da http://www.laleggepertutti.it