– Che valenza hanno le conversazioni private, raccolte senza autorizzazione, in un processo civile o penale? E’ sempre reato violare la corrispondenza altrui? –
Le email o le chat ottenute senza consenso sono utilizzabili come prova in un processo civile (ad esempio, di separazione). Chi lo fa, però, può essere denunciato per aver violato la corrispondenza altrui. In poche parole, il materiale raccolto può essere prodotto davanti al giudice civile, ma resta la commissione del reato. Al contrario, in un processo penale (ad esempio, per diffamazione) le conversazioni raccolte senza consenso non hanno valore. Secondo il codice di procedura penale, infatti, le prove acquisite in violazione dei divieti di legge sono inutilizzabili.
La valenza delle conversazioni private in sede civile e penale
L’avvento di internet e l’imporsi di piattaforme informatiche come i social network, le chat o le email hanno senza dubbio innovato il tradizionale concetto di corrispondenza. Con tale espressione, oggi, non si fa più riferimento ai soli messaggi cartacei, ma anche ai ben più utilizzati sistemi di comunicazione telematica (Whatsapp, email, Facebook e cosi via).
Ciò premesso, posto che la legge punisce chiunque violi la corrispondenza altrui, è da considerarsi senza dubbio illecita la condotta di chi acceda, senza consenso, alla mail di un’altra persona, ai contenuti privati del suo account Facebook, oppure alle chat di Whatsapp. A seconda dei casi, si commetterà quindi reato di «accesso abusivo ad un sistema informatico» (ad esempio entrando nel mail account altrui) e di «violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza».
Ma cosa succede se la suddetta violazione è compiuta per tutelare un proprio diritto, come quello di difendersi in giudizio? In poche parole, possono essere utilizzate come prove email o chat private, ottenute senza l’autorizzazione del titolare? La soluzione cambia a seconda che si tratti di un processo civile o penale.
Per quanto riguarda il campo civile, si pensi ai processi di separazione o di divorzio. In tali circostanze, è frequente che le chat o le email vengano prodotte in giudizio dalla parte che sia stata, ad esempio, vittima di un tradimento. Il tutto ai fini dell’addebito della separazione. Nel processo civile, non esiste una norma che vieti l’introduzione di prove illecitamente ottenute. L’ammissione delle prove stesse è rimessa alla piena discrezionalità del giudice, che valuta quali possano essere quelle decisive a formare il suo convincimento.
Pertanto, una conversazione in chat o in posta elettronica può essere legittimamente prodotta dalla parte in giudizio e il giudice ben potrà ammetterla come prova. Attenzione però, perché, come visto, l’ottenimento di email o chat senza consenso rimane un reato. Di conseguenza, la controparte potrà denunciare l’autore della condotta.
Al contrario di quanto avviene in sede civile, nei processi penali la legge vieta espressamente al giudice di ammettere prove illecitamente ottenute. Ne deriva che, in un qualsiasi giudizio penale (ad esempio, per diffamazione) non potrà essere prodotta la corrispondenza illegittimamente acquisita.
La violazione di corrispondenza è sempre reato?
Affrontato il tema dell’utilizzabilità in giudizio, occorre chiedersi se l’intrusione nelle conversazioni private configuri sempre e comunque un reato. Si pensi ad un marito tradito che, per evitare l’addebito nel giudizio di separazione, presenti come prove chat o email private della moglie. Come visto, in sede civile ciò è possibile. Se poi la moglie denuncia il marito per violazione della corrispondenza, l’uomo può essere scusato per il solo fatto di aver agito per difendersi in giudizio? In altri termini, l’esercizio del diritto di difesa giustifica la violazione di corrispondenza?
La risposta della giurisprudenza è chiara: no, a meno che la diffusione del materiale privato sia stato l’unico modo possibile per difendersi. Quindi, la condotta è legittima solo se è assolutamente necessaria per evitare una sentenza ingiusta. Secondo la legge, infatti, è reato rivelare il contenuto della corrispondenza, a meno che non ci sia una giusta causa. Perciò, è reato riferire al proprio avvocato o addirittura produrre in giudizio il contenuto della corrispondenza, ma ciò è concesso se è non è stato possibile difendersi altrimenti (giusta causa).
Va chiarito, però, che sono assolutamente eccezionali i casi in cui tale scusante potrà configurarsi. Infatti, se si considera che la legge permette al giudice di ordinare alle parti l’esibizione di documenti (anche su istanza della parte stessa), dovrà concludersi che la condotta descritta raramente sarà l’unica maniera per evitare una condanna ingiusta. Nell’esempio precedente, la produzione in giudizio delle chat private della moglie, da parte del marito, non è indispensabile. Ciò perché l’uomo può chiedere al giudice di ordinare alla donna l’esibizione delle conversazioni. In questo modo, l’intrusione nella sfera privata avviene per ordine della pubblica autorità, ed è quindi legittima.
Stesso discorso per l’accesso abusivo ad un sistema informatico (ad esempio, agli account mail o Facebook di un soggetto). Esso è reato, e non è giustificato dal diritto di difendersi in giudizio. La Cassazione, infatti, ha chiarito che il diritto di difesa deve arrestarsi di fronte alla riservatezza altrui. L’esigenza di difendersi in giudizio non può autorizzare l’intromissione nella sfera personale della controparte, né l’esercizio di poteri autoritativi riservati agli organi pubblicistici. Anche in questo caso, però, l’accesso abusivo può essere scusato se è stato assolutamente necessario per difendersi.
Il contenuto pubblico dei social e i «profili-esca»
Quanto detto non vale per i contenuti pubblici dei profili social (si pensi a post o foto pubblicati su Facebook). Essendo visualizzabili a tutti, infatti, la diffusione di tali contenuti non configura reato. Appare interessante, inoltre, la possibilità di creare profili falsi (cosiddetti fake) per controllare l’operato altrui.
Si pensi ad un datore di lavoro che, fingendosi una donna, invii una richiesta di amicizia al proprio dipendente per testare la sua dedizione al lavoro. Il fatto è realmente accaduto, e la Cassazione ha reputato legittimo il licenziamento per giusta causa del lavoratore che, in orario di lavoro, conversava online con la falsa donna. Attenzione però, perché se al posto di un profilo falso si usa quello di una persona che esiste davvero, può scattare il reato di sostituzione di persona.