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– Equipe medica: il sanitario deve valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro collega anche specialista in altra disciplina, verificandone la correttezza e ponendo rimedio ad eventuali errori altrui –

I casi di malasanità in Italia sono frequenti e i processi in materia lunghi e complessi: in numerosi casi la Corte di Cassazione è intervenuta in materia e lo ha fatto di nuovo proprio nei giorni scorsi, pronunciandosi sulla colpa medica in una ipotesi particolare, quella che si verifica nelle attività d’equipe.

In ipotesi di questo genere sorge spontanea una domanda: se più sanitari si occupano di un paziente, con compiti  e mansioni diverse, chi è responsabile di eventuali errori, dei danni e, alla peggio, della morte del soggetto in cura?

La pronuncia della Suprema Corte che si vuole esaminare riguarda proprio la penale responsabilità per il reato di omicidio colposo di un medico (Artt. 113 e 589 cod. pen.), il quale avrebbe, per colpa consistita in imperizia, causato la morte di una paziente, in concorso con altri sanitari (Cass., sent. n. 20125, del 16.05.2016).

Colpa medica nell’attività d’equipe: come si stabilisce la responsabilità?

Il principio di riferimento è quello secondo cui quando i medici lavorano in equipe ciascuno dei soggetti che si dividono il lavoro risponde dell’evento illecito, non solo per non aver osservato le regole di diligenza, prudenza e perizia connesse alle specifiche ed effettive mansioni svolte. Il sanitario non può fare a meno di valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro collega anche specialista in altra disciplina, verificandone la correttezza e ponendo rimedio ad eventuali errori altrui che siano evidenti e rimediabili, con l’aiuto delle conoscenze comuni del professionista medio.

Il motivo di questa regola di riparto della responsabilità è facilmente comprensibile: tutte le attività dei medici coinvolti convergono verso un fine comune unico, che è quello di curare adeguatamente il paziente.

Quando si configura la cooperazione colposa?

Tra l’altro, il concorso di persone nel reato colposo è strettamente collegato al concetto di cooperazione colposa (Art. 113 cod. pen.), che si ha tutte le volte in cui il soggetto coinvolto è consapevole della partecipazione di altri nell’attività, indipendentemente dalla specifica conoscenza sia delle persone che operano sia delle specifiche condotte di ciascuno di loro. In parole più semplici, la cooperazione colposa sussiste quando il soggetto sa che il caso non è riservato a lui soltanto, ma anche ad altri che si sono occupati e si occuperanno della salute di quel paziente. Si tratta del c.d. principio di affidamento.

Principio di affidamento: di cosa parliamo?

Proprio tale principio mira a stabilire che quando il soggetto su cui grava l’obbligo di garanzia abbia posto in essere una condotta colposa, rilevante per la determinazione dell’evento, unitamente alla condotta colposa di chi sia intervenuto successivamente, persiste la responsabilità del primo soggetto. Questa è la regola generale che, tuttavia, viene meno quando a causare l’evento sia stata esclusivamente la causa intervenuta dopo, che però deve essere stata eccezionale al punto da far venir meno la situazione di pericolo originariamente provocata o da modificarla fino a escludere totalmente la rilevanza di eventuali condotte del soggetto intervenuto precedentemente.

In altri termini, per escludere la responsabilità del garante sopravvenuto è necessario che quest’ultimo abbia posto nel nulla le situazioni di pericolo create dal predecessore, o eliminandole o modificandole in modo tale da non poter essere più attribuite al precedente garante.

Fonte: Maura Corrado di http://www.laleggepertutti.it/

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