– Nel licenziamento per giusta causa pesa il venir meno della fiducia del datore di lavoro nei confronti del dipendente –
Il più delle volte, a stabilire per quali comportamenti scatta il licenziamento per giusta causa è il contratto collettivo che fissa, in genere, le sanzioni per ciascun tipo di illecito disciplinare commesso dal dipendente. Ma la Cassazione ha più volte detto che quella del Ccnl non è un’elencazione esaustiva e ben può il datore di lavoro recedere dal rapporto di lavoro quando viene definitivamente meno la fiducia nei confronti del dipendente. Il concetto di «giusta causa di licenziamento» trova infatti fondamento nella legge e non già nella contrattazione collettiva, ragion per cui le previsioni di quest’ultima non sono da considerare un “numero chiuso”. Ma allora, ci si potrà chiedere, come si stabilisce se un licenziamento è “per giusta causa”? In altri termini, come comprendere se il datore di lavoro ha abusato del proprio potere o invece lo ha esercitato correttamente?
Per fornire una risposta bisogna capire quando c’è licenziamento per giusta causa, per quali motivi si può cioè essere licenziati in tronco. Per rispondere a questa domanda possiamo fare affidamento sui numerosi chiarimenti forniti, fino ad oggi, dalla Cassazione [1].
Cos’è il licenziamento per giusta causa?
Tra tutte le sanzioni disciplinari che può infliggere il datore di lavoro, il licenziamento per giusta causa è la più grave perché, pur prevedendo la procedura di contestazione imposta dallo Statuto dei lavoratori (preventiva comunicazione al dipendente, termine di cinque giorni per presentare difese e comunicazione del definitivo provvedimento), non è soggetto all’obbligo di preavviso. In pratica, il licenziamento avviene in tronco, con effetto immediato, a partire cioè dallo stesso giorno in cui il dipendente riceve la lettera di risoluzione del rapporto di lavoro: già dal giorno successivo questi non può più presentarsi in azienda e perde il diritto alla retribuzione.
Quando scatta il licenziamento per giusta causa?
Per quanto abbiamo appena detto, il licenziamento per giusta causa è anche l’ultima spiaggia, un provvedimento da adottare solo laddove non vi siano sanzioni più lievi da poter infliggere al dipendente salvaguardando il suo posto. E questo perché esiste sempre un obbligo di «proporzionalità» tra illecito disciplinare e sanzione comminata dal datore. Qualora questa proporzione venga violata, il licenziamento è illegittimo e il dipendente, pur non potendo più vantare il diritto alla reintegra sul posto, potrà accampare una pretesa risarcitoria.
Poiché il licenziamento disciplinare è senza preavviso, esso deve essere confinato alle sole ipotesi in cui la fiducia del datore di lavoro sia stata così irrimediabilmente lesa da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro neanche per un solo giorno.
La giusta causa di licenziamento e il contratto collettivo
Come detto in apertura, il contratto collettivo può indicare gli illeciti a fronte dei quali il datore può irrogare il licenziamento per giusta causa. Ma l’elenco non è esaustivo. Sicché, il datore può anche disporre il licenziamento in tronco in ulteriori ipotesi, sempre che vi sia proporzione tra la gravità del comportamento e il provvedimento adottato. Ciò che il datore non può fare è comminare il licenziamento laddove il Ccnl preveda una sanzione più lieve: in tal caso, prevale l’indicazione della contrattazione collettiva più favorevole al dipendente.
Licenziamento per giusta causa: le indicazioni della Cassazione
Nel licenziamento per giusta causa è particolarmente importante procedere a un’adeguata valutazione della proporzionalità tra l’addebito e il recesso. Si tratta, tuttavia, di un’operazione nei fatti frequentemente complessa e sulla quale, quindi, si concentra spesso l’opera interpretativa della Corte di Cassazione che, anche da ultimo [1], ha fornito delle importanti linee guida in proposito.
In sostanza, per valutare la proporzionalità è fondamentale considerare l’effettiva compromissione della fiducia del datore di lavoro nei confronti del lavoratore e il conseguente pregiudizio per gli scopi aziendali che la continuazione del rapporto lavorativo potrebbe determinare.
Il comportamento del dipendente, quindi, per giustificare un licenziamento per giusta causa deve essere particolarmente grave e tale gravità va valutata senza limitarsi a considerare l’addebito in maniera astratta, ma considerando ogni aspetto concreto del fatto.
Così, per i giudici, occorre considerare una serie di variabili come:
- l’eventuale impossibilità di un’utile prosecuzione del rapporto lavorativo;
- la configurazione delle mancanze fatta dal contratto collettivo di riferimento;
- l’intenzionalità del comportamento;
- l’importanza e la delicatezza delle mansioni assegnate al lavoratore;
- l’assenza o sussistenza di pregresse sanzioni;
- il danno subìto concretamente dall’azienda;
- la natura del rapporto lavorativo, la sua durata, la sua tipologia e le modalità con le quali lo stesso era in precedenza attuato.
Non ci si può, insomma, limitare a verificare se il fatto posto dal datore di lavoro alla base di un licenziamento per giusta causa possa essere ricondotto alle indicazioni contenute nel Ccnl: per ritenere ammissibile il licenziamento per giusta causa è indispensabile accertare la sua effettiva capacità di scuotere la fiducia del datore di lavoro e la sua idoneità a pregiudicare gli scopi aziendali.
In tale contesto, è quindi imprescindibile verificare se dalla condotta tenuta dal lavoratore possa desumersi una sua scarsa inclinazione ad attuare i propri obblighi in maniera diligente e ad operare secondo buona fede e correttezza.
Note:
[1] Cass. sent. n. 18334/2022.