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– Quando il lavoratore può rifiutarsi di lavorare senza il rischio di essere licenziato per giusta causa –

Tra i doveri del dipendente vi è quello di essere fedele al datore di lavoro e di rispettare le direttive da questi ricevute. L’eventuale rifiuto alle mansioni è considerato un atto di insubordinazione che giustifica un licenziamento per giusta causa (ossia in tronco). Ciò potrebbe avvenire anche quando l’ordine di servizio appare illegittimo: in tal caso, infatti, il lavoratore ha prima l’onere di rivolgersi al giudice affinché annulli il provvedimento del datore, dovendo nel frattempo adempiervi.

Ciò nonostante la Cassazione [1] ha spesso sancito che esiste, in via residuale, un diritto del dipendente di rifiutarsi di lavorare, ma esso può essere esercitato solo in casi estremi ed eccezionali. Ecco cosa sapere a riguardo, tenendo conto delle indicazioni offerte dalla stessa giurisprudenza.

Insubordinazione: cos’è?

L’insubordinazione è un comportamento che consiste nel disobbedire a un ordine legittimo impartito dal proprio datore di lavoro o da un superiore gerarchico. Se un dipendente commette insubordinazione in modo reiterato o in maniera grave, può essere licenziato per giusta causa.

Come chiarito dalla giurisprudenza, il dipendente che non esegue le prestazioni richieste dal datore di lavoro senza addurre una valida ragione, commette una vera e propria insubordinazione: e infatti il lavoratore che, pur avendo ricevuto una precisa istruzione circa le attività da svolgere, l’abbia completamente ignorata senza spiegare la ragione dell’inosservanza, né dimostrare l’esistenza di un impedimento, pone un comportamento connotato da malafede o, quanto meno, da inammissibile superficialità. Buona fede e correttezza impongono invece al lavoratore di avvisare tempestivamente il datore di lavoro della mancanza di volontà o dell’impossibilità di eseguire le istruzioni ricevute. Pertanto, in tal caso, è legittimo il licenziamento per giusta causa.

Ad esempio, secondo la giurisprudenza, l’insubordinazione non è solo il semplice rifiuto di adempiere alle disposizioni del superiore ma qualsiasi altro comportamento – come il volontario rallentamento delle mansioni, la dolosa superficialità e sciatteria – tale da pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento di dette disposizioni nel quadro della organizzazione aziendale. Solo questa tipologia di condotta del dipendente può integrare giusta causa di licenziamento [3].

Secondo la Cassazione [4], rientra nell’insubordinazione anche la condotta minacciosa indirizzata al responsabile amministrativo della società datrice di lavoro.

Cosa comporta l’insubordinazione?

L’insubordinazione può essere sanzionata con il licenziamento per giusta causa.

Illicenziamento per giusta causa è una sanzione estrema che può essere applicata solo in casi particolarmente gravi come, appunto, la mancanza di rispetto nei confronti del datore di lavoro o dei colleghi. Essa implica un licenziamento immediato, senza cioè il periodo del preavviso. 

Il licenziamento per giusta causa deve essere motivato e deve essere preceduto da una previa contestazione al lavoratore effettuata con raccomandata a/r o lettera consegnata a mani. Il dipendente ha diritto a presentare un atto scritto di difesa entro cinque giorni e/o di essere ascoltato per fornire la propria versione dei fatti. 

In caso di licenziamento per giusta causa, il dipendente non ha diritto al preavviso e non ha diritto all’indennità di licenziamento.

L’insubordinazione non è sempre causa di licenziamento per giusta causa: dipende dalla gravità dell’insubordinazione e dalle circostanze specifiche.

Il dipendente deve rispettare un ordine illegittimo del datore?

Secondo la giurisprudenza, il dipendente deve adempiere agli ordini del datore di lavoro anche quando questi gli appaiono illegittimi sotto il profilo del contratto di lavoro. Si pensi a un trasferimento effettuato senza che sussistano i motivi di organizzazione e produzione richiesti dal Codice civile. Infatti, in generale, il lavoratore che ritiene illecite le richieste del datore deve prima rivolgersi al tribunale, tramite il proprio avvocato, affinché annulli l’ordine di servizio. Nel frattempo, però, è tenuto ad eseguire la propria prestazione.

Attenzione:il dipendente può rifiutarsi di lavorare se gli viene chiesto di commettere un reato (ad esempio, una truffa nei confronti di un cliente) o un illecito tributario (ad esempio, una falsa fatturazione). In tali casi, infatti, siamo in presenza di un comportamento che potrebbe implicare una responsabilità personale. 

Quando sussiste il diritto del dipendente di rifiutarsi di lavorare?

Oltre ai casi suddetti, la giurisprudenza individua ulteriori casi in cui la legge riconosce al dipendente il diritto di rifiutarsi di lavorare. Ciò avviene, ad esempio, nel caso in cui il datore di lavoro non lo paghi da diverso tempo [4] oppure possa compromettere la sicurezza del lavoratore (si pensi al caso di un lavoratore a cui sia chiesto di salire su un’impalcatura senza i dispositivi di protezione e sicurezza).

Come chiarito dalla Cassazione, il rifiuto del lavoratore di adempiere la propria prestazione attenendosi alle modalità indicate dal datore di lavoro può giustificare il licenziamento per giusta causa, salvo il caso in cui detto rifiuto sia improntato a buona fede. Ciò vale anche quando i provvedimenti del datore siano illegittimi. A operare, infatti, è l’articolo 1460 del Codice civile e, in particolare, il secondo comma, per il quale la possibilità per la parte adempiente di rifiutarsi di eseguire la prestazionea proprio carico sussiste solo se il rifiuto, tenuto conto delle circostanze del caso concreto, non risulti contrario a buona fede.

A tal fine occorre tenere conto dell’incidenza dei comportamenti delle parti sull’equilibrio contrattuale, nonché della posizione e degli interessi di entrambe. Se quindi l’inadempimento di una parte non è grave o è discarsa importanza, il rifiuto dell’altra di adempiere a propria volta all’obbligazione su di essa gravante non può dirsi sorretto da buona fede.

Potrebbe ritenersi sorretto da buona fede il rifiuto a prendere servizio presso un’altra sede dell’azienda opposto dal dipendente titolare della legge 104 che non può muoversi o che assiste un familiare disabile da cui non può allontanarsi troppo.

Secondo la Cassazione [1], c’è anche buona fede nel rifiuto di adempiere a una prestazione quando il datore di lavoro non adempia al proprio obbligo di proteggere i dipendenti rispetto ai comportamenti minacciosi di terze persone o che comunque i dipendenti medesimi abbiano percepito come tali. In tal caso, l’inadempimento del dipendente che esegua la prestazione in maniera non conforme alle modalità prescritte dal capo deve ritenersi legittimo. 

In tali casi, se il datore di lavoro dovesse irrogare il licenziamento e il dipendente lo impugnasse, quest’ultimo avrebbe diritto alla reintegra sul posto di lavoro e non solo al risarcimento del danno. 

Note:

[1] Cass. sent. n. 770/2023.

[2] C. App. Brescia, sent. n. 275/2022.

[3] Trib. Parma, sent. n. 151/2022.

[4] Cass. sent. n. 13411/2020.

Fonte: www.laleggepertutti.it

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